Antonio Panizzi La catena di seta. Lettere a Giuseppe Levi Minzi (1822 – 1873) a cura di William Spaggiari. Fonti LXXXV, Istituto per la storia del Risorgimento italiano – Archivio Guido Izzi, Roma 1998, pp.121
Sfuggito avventurosamente all’arresto da parte della polizia estense Antonio Panizzi (Brescello 1797-Londra 1879) approdava nell’autunno 1822 in Svizzera, dove, secondo il costume inaugurato dal Foscolo e dagli esuli della Restaurazione, si trattenne per alcuni mesi prima di raggiungere l’Inghilterra. Superando difficoltà di ogni tipo, a Londra egli percorse le tappe di una carriera prodigiosa: professore d’italiano all’Università (sua è l’edizione dei due Orlandi di Ariosto e di Boiardo, quest’ultimo restituito dopo tre secoli al testo originale), Keeper of printed books e (dal 1856) principal librarian del British Museum, istituzione che egli rinnovò profondamente (fra l’altro con la costruzione della famosa Reading Room),ed alla quale si sentì sempre legato da una catena, «non di ferro ma di seta». Nell’arco di mezzo secolo, Panizzi intrattenne col medico ebreo Giuseppe Levi Minzi, suo concittadino, un carteggio che mette in evidenza i tratti della sua personalità: l’orgoglio per i successi in terra inglese, il perentorio esercizio della vis polemica, l’immutato amore per la terra d’origine, i risentimenti di una vecchiaia solitaria, l’impegno per la causa risorgimentale, ma anche il fastidio per la corruzione dilagante e il disprezzo per quei connazionali che pensavano a organizzare feste anziché lavorare e studiare. Dopo l’Unità, il Regno d’Italia si incamminava su strade che non erano quelle previste, con moralistico rigore, dal «terribile Panizzi» (così lo aveva definito nel corso di un memorabile colloquio, Ferdinando II di Borbone). «Addio mio carissimo amico. Mi vergogno essere italiano vedendo come vanno le cose. Basta la mia carriera è finita e concludo Vanitas vanitatum et omnia vanitas».
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